di Pino Cuttaia*
LICATA – Il carciofo fa parte della dieta mediterranee da sempre. Seppur vestito da guerriero con un’armatura ispida e brunita ha un cuore tenero che ha sempre conquistato tutti a tavola. Per raccontare la sua storia bisogna partire da lontano: dai Romani, dai Greci o addirittura dagli Egizi. Ha affascinato poeti e scrittori di tutti i tempi che gli hanno dedicato odi e poesie e sono numerosi i racconti mitologici. I suoi colori verde e viola, non sarebbero altro che i colori degli occhi dell’avvenente ninfa Cynara, alta e snella e dai capelli color della cenere, di cui Giove era follemente innamorato. Cynara era bella quanto orgogliosa e volubile e si negava a Giove. Il quale, di fronte all’ennesimo rifiuto, la trasformò in un carciofo spinoso, come il carattere dell’amata, ma che conserva al suo interno la sua grazia e la sua leggiadria.
Il carciofo ha sempre occupato un posto importante nell’alimentazione dei siciliani, e dei licatesi in particolare. Occupava il posto che in altri luoghi era riservato ai fagioli: era il sostituto di proteine più nobili e costose. Se la pasta e fagioli serviva per sostituire la bistecca, il carciofo, mangiato insieme a grandi quantità di pane di grano duro, veniva utilizzato dai licatesi per sostituire il pesce. Per esempio il merluzzo, tant’è che c’è un piatto: il Carciofo alla baccalà (Cacocciulu a’ baccalaru), in cui grazie all’accostamento con il prezzemolo ed il limone (un abbinamento tecnicamente perfetto), il carciofo sprigiona lo stesso profumo e lo stesso sapore del merluzzo lessato, tranne un piccolo particolare: del pesce non c’è traccia. Facevano finta che fosse merluzzo: era uno dei tanti espedienti delle massaie, che cercavano di portare qualcosa a tavola, con il poco di cui disponevano. Erano tempi diversi, in cui apparecchiare la tavola, era una difficoltà quotidiana e allora bisognava ingegnarsi, per dare un aspetto invitante e sempre nuovo a prodotti che si dovevano presentare, e spesso ripresentare, per giorni. Molte ricette della tradizione gastronomica siciliana, che ci invidiano in tutto il mondo, nascevano così: dalla necessità, che è il motore essenziale della creatività.
Il carciofo a Licata era presente su tutte le tavole sia in inverno che in primavera: fritto, bollito, arrostito, imbottito, crudo, gratinato. Fino a Pasqua, quando nelle scampagnate del Lunedì di Pasquetta, si facevano mangiate pantagrueliche di carciofi arrostiti sulla brace, di cui poi si narrava per settimane. Dopo quel giorno, si iniziavano a conservare sott’olio i carciofini, che si sarebbero consumati nelle insalate estive.
Grazie ai carciofi si riusciva, con un piatto unico, a sfamare la famiglia. Ma ciò era possibile perché pur essendo acquistabile con poche lire, era di ottima qualità. Il carciofo licatese ha caratteristiche inimitabili: il suo profumo ed il suo colore sono unici, svetta decisamente fra le altre varietà. Nessuna delle nuove cultivar di carciofo è ancora riuscita ad eguagliare quello licatese. Purtroppo, però, stanno riuscendo a scalzarlo, dal mercato, dalla tavola e presto anche dai ricordi.
Il carciofo licatese, infatti è una pianta particolarmente delicata, e meno produttiva di altre, per questo sono sempre meno gli agricoltori che lo coltivano. Inoltre, la presenza delle spine lo rende più difficile da pulire e quindi meno utilizzato in cucina. Anche per questi motivi sta scomparendo: rischia l’estinzione, come il panda. Purtroppo viene soppiantato da altre varietà senza spine, che costano meno e sono più facili da preparare.
Gli agricoltori hanno trovato più conveniente sostituirlo con il violetto sardo o con carciofi creati in laboratorio, che sono più produttivi e che evidentemente riscuotono più successo sul mercato.
Trovarlo al supermercato è quasi impossibile, sta aumentando il numero di licatesi che non lo hanno mai neanche assaggiato. È un vero peccato che ci si rassegni a perdere un prodotto che rappresenta un pezzo della nostra storia, della nostra identità per pure ragioni di mercato, o peggio per pigrizia.
Il carciofo è un fiore, come una margherita va sfogliato voluttuosamente, mangiato con le mani. Io ad esempio ho creato la Ninfea di carciofo in salsa d’acciughe, che mette insieme due ricordi: quello del carciofo lessato che si mangiava, con le mani, foglia dopo foglia con il pinzimonio, e quello dei carciofi ripieni con il cipollotto e, a volte, l’acciuga.
Per essere precisi il carciofo è un bocciolo: come una rosa. E così come non esiste una rosa senza spine non dovrebbe esistere un carciofo senza spine, specie per i Licatesi. Il termine carciofo deriva dall’arabo al-kharshûf, letteralmente “pianta che punge”, quindi aver concepito un carciofo senza spine, disarmato, vuol dire tradirne la natura. Per i Licatesi mangiare un carciofo senza spine vuol dire cancellare il proprio passato, dimenticare da dove vengono.
Sarebbe importante che ognuno di noi quando fa la spesa comprasse il carciofo licatese, così da spingere molti più agricoltori a coltivarlo. Con un piccolo gesto, certe volte, si possono cambiare le cose. Questo piccolo contribuito a conservare un sapore della nostra terra sarà ricompensato a tavola: si potrà assaporare un petalo di storia dal gusto sublime. A chi saprà sfidare il suo aspetto ispido, il carciofo licatese donerà il suo cuore tenero e dolcissimo.
I ristoratori potrebbero inserirlo nei loro menù. A Roma non c’è trattoria, osteria, pizzeria che non proponga il carciofo romanesco, perché noi non dovremmo fare la stessa cosa?
Chi invece occupa posti di responsabilità ha il dovere di impegnarsi perché non scompaia e venga valorizzato come merita: il carciofo licatese non sfigurerebbe certo fra le produzioni tutelate dall’Unione Europea.
30 gennaio 2012
Foto: Davide Dutto
*chef del Ristorante la madia
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